Non otto, come si è ritenuto finora, ma più del doppio: sarebbero infatti 17, se non addirittura 19, i quadri del XIV, XV e XVI secolo acquistati dai nazisti soprattutto a Firenze, quando Germania e Italia erano amiche, illegalmente esportati in Germania, soffiati sotto il naso dei Monuments men a Berlino da un faccendiere croato e infine incamerati dal Museo nazionale serbo, a Belgrado, dove tuttora si trovano. I carabinieri della Tutela patrimonio culturale ne hanno individuati appunto otto e la magistratura di Bologna ne ha chiesto per anni, inutilmente, la confisca: ora un’inchiesta giornalistica rivela che i dipinti detenuti illegittimamente e che dovrebbero tornare in Italia sono molti di più.
La truffa -come viene ricostruito nel libro appena uscito da Mursia “Bottino di guerra. Il giallo dei quadri razziati dai nazisti e deportati a Belgrado”, dei giornalisti Tommaso Romanin e Vincenzo Sinapi – viene preparata per mesi e si consuma in due giorni, il 2 e il 10 giugno 1949, quando 50 quadri, otto icone e una gran quantità di oggetti antichi e preziosi – tappeti, arazzi, candelabri, monete – in tutto 166 articoli, lasciano per sempre il palazzone di Monaco di Baviera dove gli Alleati avevano stipato l’arte saccheggiata dai nazisti nei Paesi occupati. Ante Topic Mimara, mezza spia e mezzo imbroglione, si è presentato al Central collecting point come “Rappresentante jugoslavo per le restituzioni, le belle arti e i monumenti” e le autorità serbe oggi non negano che abbia svolto quel lavoro, anche se neppure loro sanno bene a che titolo, con quale veste e che metodi, ma sicuramente con il beneplacito degli americani. L’altra cosa certa è che l’impresa gli è perfettamente riuscita, con la complicità di una giovane funzionaria tedesca del Centro, frau Wiltrud Mersmann, che poco dopo sarebbe diventata sua moglie. I beni raggiungono in treno la Jugoslavia e nel mese di luglio, attraverso una fumosa Commissione per i risarcimenti dei danni di guerra, vengono incamerati dal Museo nazionale di Belgrado. Solo che quei 166 oggetti non appartengono alla Jugoslavia. Gli americani se ne accorgono quasi subito e li chiedono indietro, ma invano. Poi, per evitare tensioni diplomatiche con Belgrado e che il mondo venisse a conoscenza della brutta figura, dopo qualche anno desistono.
Nel frattempo Mimara, un personaggio rivelatosi un enigma per tutti coloro che hanno avuto a che fare con lui, vaga per mezzo mondo, con al seguito – o stoccata in qualche deposito – una collezione d’arte dalla provenienza losca, ma di tutto rispetto. Dopo quasi un quarto di secolo decide che è ora di fermarsi e, agli inizi degli anni Settanta, si stabilisce in Croazia. Al Paese d’origine lascia tutti i suoi beni a patto che finiscano in un monumentale museo che porti il suo nome e in cambio di una villa e di un cospicuo vitalizio per sé e la sua signora. Il Museo Mimara, aperto nel 1987, è tuttora una delle principali attrazioni di Zagabria, ma c’è chi dice che sia pieno di falsi.
I quadri veri, invece, sono rimasti per anni stoccati nel Museo nazionale di Belgrado, chiuso per restauro per un lungo periodo durante il quale le opere sono state inventariate e catalogate, con la collaborazione del Governo italiano e di alcune Sovrintendenze. Il risultato di questo complesso lavoro è condensato in un ricco catalogo bilingue di tutte le opere della collezione italiana, oggi il fiore all’occhiello del museo, e l’avvio di una collaborazione importante tra storici dell’arte serbi e italiani che si è tradotta anche in una serie di mostre su entrambe le sponde dell’Adriatico. Proprio da una di queste prende le mosse l’inchiesta della procura di Bologna che porterà i magistrati a chiedere, invano, la restituzione di otto quadri di proprietà dello Stato italiano e, a loro avviso, illegalmente detenuti a Belgrado.
Succede infatti che nel 2014, compulsando il web in una ricerca qualunque, un appuntato del Nucleo Tutela patrimonio culturale di Firenze si imbatte in un quadro esposto in una rassegna allestita a Bari e a Bologna dieci anni prima, tra il 2004 e il 2005. Quel quadro però non doveva trovarsi lì: acquistato da Goering, la mano destra di Hitler, durante la Seconda guerra mondiale, era stato illecitamente esportato in Germania, tant’è che poi è stato inserito, con molti altri, negli elenchi dei beni culturali ricercati e da riportare in Italia. Le indagini successive aprono il vaso di Pandora del Museo di Belgrado, dove i Carabinieri scoprono altri sette dipinti che avevano fatto lo stesso percorso. Si tratta di pregevoli opere del XIV, XV e XVI secolo, tutti oli o tempere su tela o su tavola: un Ritratto della Regina Cristina di Danimarca, di pittore lombardo del XVI secolo, con suggestioni da Tiziano; una Madonna con Bambino e donatore (1565 circa) attribuita a Jacopo Tintoretto; due quadri della scuola di Vittore Carpaccio raffiguranti San Rocco e San Sebastiano (prima metà del XVI secolo); una Adorazione del Bambino con Angeli e Santi (XV-XVI secolo) di pittore lombardo; una Madonna con Bambino (1320-1324) dell’ambito di Paolo Veneziano; una Madonna con Bambino, Santi, Annunciazione, Crocifissione (XIV secolo) di Paolo di Giovanni Fei e una Madonna con Bambino in trono (XIV secolo) di Spinello Aretino.
Tutti e otto – gli “otto prigionieri di guerra” – facevano parte dei 166 oggetti portati via con il raggiro dal Collecting point di Monaco di Baviera, erano stati trasferiti nel Museo nazionale serbo e qui erano stati studiati, restaurati e inventariati, anche con la collaborazione di funzionari italiani che – in almeno due occasioni, ma probabilmente di più – li hanno chiesti e ottenuti in prestito per allestire mostre in Italia. Tutto ciò senza sapere, né sospettare, che quei quadri erano ricercati nel nostro Paese, quasi tutti inseriti nella banca dati dei Carabinieri dei beni culturali e ne “L’opera da ritrovare”, il compendio delle opere razziate dai nazisti in Italia curato da Rodolfo Siviero, il detective dell’arte che al recupero di quegli oggetti ha dedicato la vita.
Inevitabile che la vicenda desse vita a un’inchiesta e, poi, a un processo penale nei confronti delle studiose che avevano organizzato le mostre italiane, accusate di aver impiegato dei beni di provenienza illecita per allestirle. Trattandosi di un reato solo doloso, le imputate sono state tutte assolte: pur essendo tra le massime esperte di questo ambito della Storia dell’arte, non erano consapevoli che stavano commettendo qualcosa di illecito. Ma l’obiettivo dell’inchiesta, in realtà, non era tanto quello di condannare le eminenti studiose, al punto che alla fine lo stesso pm ne ha chiesto l’assoluzione: scopo della procura era piuttosto quello di cristallizzare negli atti giudiziari il contesto di illegalità nel quale sono avvenuti la vendita e l’esportazione dei beni, per poter basare su questi argomenti la richiesta di restituzione delle opere d’arte. Però, nonostante due rogatorie per eseguirne il sequestro e una sentenza di confisca, le autorità serbe hanno risposto picche e – dopo un tira e molla durato anni – i quadri si trovano sempre al loro posto, a Belgrado.
Quello che è certo è che la partita non può considerarsi chiusa e l’inchiesta pubblicata in “Bottino di guerra” potrebbe contribuire a rivitalizzare l’iniziativa giudiziaria. Una delle curatrici del Museo serbo ha infatti dichiarato che, nel luglio del 1949, dalla Commissione per i risarcimenti furono acquisiti 56 dipinti, di cui 46 confluirono nella raccolta d’arte straniera. Incrociando i risultati delle indagini dei Carabinieri, l’analisi di documenti americani del dopoguerra da poco desecretati, quelli degli archivi federali tedeschi, i cataloghi di mostre e musei, e le informazioni raccolte sul posto, a Belgrado, Romanin e Sinapi hanno scoperto che la maggior parte di questi 56 sono proprio i quadri e le icone che nel giugno di quello stesso anno Mimara portò via con l’inganno dal Collecting point di Monaco di Baviera.
Ma esattamente quanti e quali?
Per quanto riguarda l’Italia abbiamo un dato certo: sono 19 i dipinti presenti nella collezione italiana del Museo che risultano pervenuti attraverso la Commissione per i risarcimenti. Ce lo dice il museo stesso, i suoi cataloghi, lo si può constatare di persona visitando quelle sale ovattate. Di questi, 17 figurano nelle liste di spedizione che attestano l’uscita dei beni dal Collecting point,e dunque fanno parte dei beni asportati in modo fraudolento da Mimara, che poi li ha spediti a Belgrado in quello stesso 1949: il raffronto tra i quadri del museo e le foto e le informazioni riportate sulle property cards allegate alle liste non lasciano dubbi. Per otto di questi, come detto, i Carabinieri sono riusciti a ricostruire nei dettagli anche la storia precedente, cioè i vari passaggi di mano e la loro esportazione illegale dall’Italia durante la guerra. Per gli altri nove dei 17, invece, questa ricostruzione manca. Di certo però ora sappiamo che sono stati prelevati con il raggiro dal Ccp di Monaco e che attualmente si trovano in quel museo. Infine, la provenienza degli ultimi due quadri dei 19 giunti alla collezione italiana del museo attraverso la Commissione per i risarcimenti non è nota. Non risultano tra quelli ufficialmente spediti, né tra i quadri rivendicati dalla Jugoslavia, e quindi non ci sono prove che facessero parte del “pacco”, ma – seguendo il ragionamento della procura di Bologna – anche la loro acquisizione dovrebbe essere approfondita, con l’obiettivo di valutarne la legittimità, perché la legge non consente che opere d’arte possano essere utilizzate come riparazione di danni bellici. Ne consegue che i dipinti italiani ancora oggi prigionieri a Belgrado potrebbero essere non solo otto, ma ben 19. Undici in più di quello che si credeva e, di questi, sette hanno varcato anch’essi l’Adriatico, al pari degli “otto prigionieri”, per essere esposti, da ricercati, nella mostra “Da Carpaccio a Canaletto”.
Ma di che quadri parliamo?
Il primo è un capolavoro di scuola veneziana, un olio su tela di Francesco Guardi con soggetto Piazza San Marco a Venezia. C’è poi un olio su tela attribuito all’artista veneziano Michele Marieschi, o al suo ambito che rappresenta Santa Maria della Salute. Il terzo è un olio su tela raffigurante l’Adorazione del vitello d’oro, attribuito originariamente al pittore francese Nicolas Poussin e invece di Giuseppe Gambarini, nato a Bologna nel 1680 e attivo soprattutto tra la sua città, Roma, le Marche e la Toscana. Altra opera italiana è un Canaletto che raffigura Il Canal Grande con la chiesa di Santa Maria della Salute. Segue un piccolo olio su tavola (Madonna col Bambino e San Francesco) oggi attribuito ad Alessandro Turchi, detto l’Orbetto, pittore veronese che ha vissuto a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento. Ancora: una Madonna col Bambino e San Giovannino, copia da Raffaello e un’Adorazione di Cristo, tempera su tavola attribuita a Lorenzo di Credi, un grande tondo che costituisce uno dei dipinti più ammirati del museo di Trg Republike. Altri quadri italiani giunti a Belgrado attraverso Mimara e la Commissione per i risarcimenti dei danni di guerra sono una piccola tempera su tavola raffigurante una Crocefissione, attribuita ad un «pittore centro italiano, secolo XV-XVI» e un olio su tela raffigurante Venere con Adone attribuito al pittore parmigiano, ma attivo soprattutto a Roma, Michele Rocca, nato nel 1675 e morto nel 1751. Gli ultimi due quadri acquisiti dal Museo nazionale di Belgrado tramite la Commissione per i risarcimenti e inseriti nella collezione italiana, ma non presenti in nessuna delle liste del caso Mimara, sono una tempera su tavola (Dio Padre e tre angeli) attribuita a Giovanni di Paolo, pittore nato a Siena nel 1399 e un’altra piccola tempera su tavola raffigurante una Madonna col Bambino e attribuita ad un pittore veneto-cretese del secolo XV-XVI.
Naturalmente, una volta stabilita l’illegittimità della detenzione da parte del museo, è fondamentale accertare chi sia il proprietario del bene ai fini dell’eventuale restituzione. Non basta dire che quel quadro è “italiano”. Se così per gli “otto prigionieri” già segnalati da Rodolfo Siviero i Carabinieri sono riusciti a fornire ai magistrati tutti gli elementi necessari a provare che appartengono all’Italia, e che al nostro Paese devono essere restituiti, un’indagine analoga non è stata condotta per gli altri undici dipinti italiani consegnati al Museo di Belgrado dalla Commissione per i risarcimenti di guerra, tutti provenienti (tranne due) dalla truffa di Ante Topic Mimara.
Il discorso riguarda naturalmente anche altri Paesi, in particolare la Francia, la Germania e l’ex Cecoslovacchia. Certo, i numeri sono ballerini e diverse opere provenienti dalla truffa di Mimara non hanno a tutt’oggi una chiara e univoca appartenenza a uno Stato, anche perché spesso nessuno le ha formalmente rivendicate. Dire poi quanti si trovino effettivamente nel Museo di Belgrado è complicato. I Carabinieri del Comando Tutela patrimonio culturale, che hanno vagliato anche questo aspetto, sono dell’avviso che buona parte delle opere di cui fin qui si è parlato siano esposte o custodite lì. Non è solo una sensazione, perché basta anche una semplice ricerca sul web, o consultare qualche catalogo per constatare che vi è coincidenza assoluta tra alcuni dipinti presenti nelle varie collezioni straniere del museo e quelli schedati dal Collecting point, con tanto di dimensioni e fotografie, e consegnati a Mimara.
Da Rubens a Corot, gli autori dell’inchiesta giornalistica ne hanno identificati sicuramente almeno 14, tutti in bella mostra. Certo, per avere una risposta inequivocabile e definitiva, tenuto conto che solo una parte dei quadri è esposta, sarebbe necessaria una approfondita ricognizione ed è per questo che la stessa magistratura italiana che ha indagato sulla “grande truffa” ha attivato l’Interpol e cercato di coinvolgere i Paesi di appartenenza delle opere: l’idea sarebbe quella di un’iniziativa congiunta, ma finora non ci sono state risposte. L’impressione è che, nei governi, compreso quello italiano, nessuno abbia voglia di rivangare vecchie questioni.