Geopolitica

Medio Oriente, dalle guerre arabo israeliane al trattato di Camp David (1948-1978)

La guerra arabo israeliana del 1948

La guerra arabo-israeliana del 1948 avviò la questione palestinese, coinvolse gli eserciti di Egitto, Siria, Libano, Iraq e Giordania che combatterono contro Israele. Fu anche una guerra dove gli Stati arabi badarono ai loro interessi dimenticando il futuro Stato Palestinese. Non vi era alcuna strategia comune in grado di affrontare Israele sia dal punto di vista militare sia dal punto di vista politico.

Quando l’armistizio pose fine allo scontro armato, il territorio affidato dalle Nazioni Unite alla futura Palestina, era stato smembrato e la maggior parte della popolazione araba si trasformò in una massa di profughi in cerca di terre per essere ospitata. La risoluzione 181 delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 stabiliva la divisione della Palestina storica in tre: Stato palestinese(42,88%), Stato Israeliano (56,47%) ed una zona ad amministrazione internazionale tra Betlemme e Gerusalemme(0,65%).

Fallito il piano di spartizione previsto dall’Onu, prevalse la logica militare e di conseguenza nasceva uno Stato ebraico frutto dell’azione di guerra. Israele controllava il 78% del paese, compreso metà dei territori assegnati ai palestinesi dal piano di spartizione delle Nazioni Unite, del futuro Stato, ridotto al 22% dell’intera regione, la West Bank fu annessa dalla Giordania e Gaza dall’Egitto.

Con l’armistizio, Israele annetteva importanti territori a nord, inizialmente affidati ai palestinesi, come Nazareth, Akka, Naharya, che spezzavano l’entità statuale araba e consentivano ad Israele di controllare il confine con il Libano ed impedire la continuità territoriale. Nell’immaginario collettivo ebraico questa conflitto è ricordato come la guerra d’indipendenza, mentre per il popolo palestinese fu una catastrofe (Nakba).

Le questioni irrisolte: i confini dello Stato ebraico e il destino dei profughi palestinesi

Da questa prima guerra rimasero due questioni fondamentali, che tuttora sono ancora irrisolte: la definizione dei confini dello Stato ebraico e il destino dei profughi palestinesi.

Riconosciuto da diversi paesi ma non dai vicini arabi confinanti con la Palestina, Israele aveva costruito il nuovo Stato con la legittimazione della guerra, i confini del 1949 avevano sostanzialmente migliorato la loro posizione strategica, soprattutto con il controllo del Negev, ma rimaneva forte il timore che un attacco simultaneo e coordinato da parte di Giordania, Siria ed Egitto lungo le frontiere avrebbe avuto successo.
In considerazione della mancata armonia dei paesi arabi limitrofi, l’obiettivo principale di Israele fu di raggiungere una profondità strategica adeguata per combattere i nemici fuori dal territorio ebraico. Fino al 1967, “guerra dei Sei giorni”, la strategia israeliana si basava sull’attacco preventivo, colpire i nemici prima che potessero iniziare le ostilità.

La seconda questione riguardava la condizione dei profughi palestinesi, essi persero la speranza di ottenere il proprio Stato in Palestina e furono costretti ad abbandonare le loro terre, in migliaia furono evacuati e si ammassarono in campi profughi ai confini di Israele e all’interno dei confini degli altri paesi arabi. Le stime divergono in base alle fonti ma fu un trasferimento di popolazione di enormi proporzioni : secondo le stime dei palestinesi i profughi furono circa un milione mentre secondo le cifre fornite dagli israeliani circa 500 mila. Secondo Thomas Fraser le stime dell’Onu di circa 750.000 è la più attendibile ( T.Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino, 2004).

La guerra di Suez del 1956 modificò gli equilibri internazionali

La guerra di Suez del 1956 fu il secondo conflitto che modificò gli equilibri internazionali, segnando il declino della potenza coloniale britannica. Quando Nasser nazionalizzò il canale di Suez, sotto il controllo di un consorzio francese e inglese, le potenze coloniali furono private dei profitti che ricavavano, mentre Israele perdeva lo sbocco marittimo al Mar Rosso. Si formò un’alleanza di convenienza tra Francia, Inghilterra e Israele che, con un accordo segreto, decisero di conquistare il 29 ottobre 1956, il canale di Suez con un’azione militare(l’operazione tripartita segreta portava il nome di “Operazione Musketeer”).
Si scatenò un conflitto diplomatico, ma gli Stati Uniti, pressati dall’Urss, costrinsero Francia e Inghilterra a ritirarsi dal canale. Questo avvenimento avrebbe potuto segnare la fine del colonialismo se gli Stati Uniti, spinti da interessi strategici ed economici, non si fossero sostituiti alle potenze coloniali europee, diventando la superpotenza dominante nell’area.

Per impedire l’espansione sovietica, soprattutto dopo la fine della dominazione anglo-francese, Washington intensificò la sua politica mediorientale. La “dottrina Eisenhower”, annunciata nel gennaio del 1957, dopo la rielezione alla presidenza, prevedeva l’intervento armato degli Stati Uniti per sostenere i paesi del Medio Oriente che avessero richiesto assistenza contro il comunismo. La crisi di Suez aveva segnato la fine dell’influenza di Inghilterra e Francia nella regione ed Eisenhower dichiarò che «gli Stati Uniti non potevano lasciare un vuoto in Medio Oriente e presumere che la Russia ne restasse fuori».

Per quasi tutto il periodo della guerra fredda, la politica mediorientale degli Stati Uniti ruotava intorno ad alcuni punti: garantire all’Occidente l’accesso al petrolio, mantenere la pace e l’equilibrio per evitare di estendere il conflitto, salvaguardare l’indipendenza con Israele e proteggere le rotte marittime e le vie di comunicazione. Lo storico James Gelvin per stabilire l’uniformità della politica mediorientale nel periodo della guerra fredda, analizza due documenti risalenti alla fase finale ed iniziale del confronto Est- Ovest: 1. Obiettivi e politiche degli Stati Uniti relativi al Medio Oriente inviato dal National Security Council nel luglio del 1954 al presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower; e 2. Audizione davanti a Congresso di Peter Constable, vice Segretario di Stato per gli affari del Vicino Oriente e dell’Asia del Sud nell’amministrazione Reagan, nell’aprile del 1981, «per fornire un quadro integrato delle nostre politiche in Medio Oriente e della regione del Golfo» (James L. Gelvin, Storia del Medio Oriente, Einaudi, Torino 2008, p. 322.)

Quando furono siglati i trattati di pace dopo la guerra di Suez, le tensioni nella regione si aggravarono ulteriormente e aumentarono gli scontri tra Israele e i paesi arabi confinanti. Ma il mondo arabo era in fermento e si intensificavano le varie componenti della resistenza palestinese, nel 1964 nasceva l’Olp, Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

La guerra dei “Sei giorni” del 1967

Quando nel giugno del 1967 Israele attaccò e sconfisse in solo sei giorni le forze egiziane, siriane e giordane, ottenendo la necessaria profondità strategica preventivata, il conflitto raggiunse il massimo livello di guardia. La questione palestinese divenne più complessa con l’occupazione israeliana dei nuovi territori.
La sconfitta araba trasformò il panorama politico mediorientale: Israele controllava la Cisgiordania, il Sinai, la Striscia di Gaza e il Golan, uno spazio ampio per tenere gli avversari fuori dai confini, ma questi territori erano abitati da oltre un milione di palestinesi. Tutte le parti coinvolte nella “guerra dei Sei giorni” sostenevano la propria linea. Gli Israeliani consideravano questa guerra di difesa mentre gli arabi e musulmani del Medio Oriente come una dimostrazione di forza e aggressività di Israele.

Il problema dei profughi divenne più drammatico poiché i palestinesi persero anche gli ultimi territori in cui vivevano ed emigrarono in massa in Giordania. Fu stimato in oltre 400.000 mila il numero di profughi in fuga. La sconfitta provocò nel mondo arabo sconcerto per l’offuscamento del nazionalismo arabo, ma il dramma dell’occupazione fu vissuto direttamente dai palestinesi che furono costretti a subire l’occupazione militare israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, dove si erano trasferiti in massa.

La Cisgiordania, denominata anche West bank, era stata assegnata dal piano di spartizione dell’Onu al nuovo Stato palestinese, nel 1949 fu controllata dalla Giordania insieme a Gerusalemme Est ( Città vecchia di Gerusalemme) fino alla guerra dei “Sei giorni del 1967″, quando cadde sotto il controllo militare di Israele.
La Striscia di Gaza confina con Israele e l’Egitto, ha una superficie di 360 chilometri quadrati, è lunga 41 chilometri ed è larga tra i 6 e 12 chilometri. Era stata annessa dall’Egitto e occupata fino al 1967, quando fu conquistata da Israele. Dal 1967 al 2005 è stata occupata militarmente da Israele, dal giugno del 2007 è governata da Hamas.

Dopo questo esodo gli arabi palestinesi potevano essere identificati in base a tre tipologie: la minoranza non ebrea rimasta all’interno dello Stato di Israele, gli arabi dei Territori occupati, e coloro che erano emigrati fuori dalla Palestina.

Risoluzione dell’Onu “Pace in cambio di Terra”

Secondo la nuova risoluzione dell’Onu “Pace in cambio di Terra” (risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu n.242 del 22 novembre 1967) «il ritiro delle forze armate israeliane dai Territori occupati nel recente conflitto» in cambio del riconoscimento da parte dei paesi confinanti e la garanzia di confini sicuri.
Ma i testi della risoluzione non erano chiari e vi furono diverse interpretazioni, gli Stati arabi sostenevano che s’intendeva il ritiro definitivo delle forze militari israeliane dai Territori occupati, mentre Israele interpretava la decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu come un ritiro associato alla rivendicazione del diritto di sicurezza di uno Stato. Ognuno rimase sulle proprie posizioni e la risoluzione, ancora oggi parte integrante dei negoziati di pace, rimase inefficacie.

L’agenda politica del Medio Oriente alla fine degli anni Sessanta risentiva notevolmente della guerra fredda ed il conflitto tra arabi e israeliani fu condizionato dai due blocchi contrapposti, si intensificò notevolmente l’alleanza tra Stati Uniti e Israele mentre l’Egitto entrava nell’orbita sovietica.
Determinati a cancellare le conquiste territoriali del 1967, i leader dei paesi arabi pianificarono un attacco militare e il 6 ottobre del 1973, giorno ebraico dell’espiazione (Yom Kippur), Egitto e Siria attaccarono improvvisamente Israele. Dopo un inizio che sembrava favorevole alle forze militari arabe, Israele riuscì nuovamente a vincere il conflitto e a consolidare le conquiste della guerra del 1967.

La guerra del Kippur del 1973

Con l’intento di imporre il ritiro dai territori occupati, dopo la guerra del Kippur, l’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, impose l’embargo ad Israele ed ai paesi occidentali. Questa decisione creò un improvviso aumento del prezzo del petrolio con una conseguente forte crisi energetica. Gli Stati Uniti compreso ancora di più l’importanza strategica della regione, essenziale per l’approvvigionamento delle risorse energetiche e fu proprio in questa circostanza che rafforzarono il loro legame con Israele. Per sostenere un’alternativa energetica, gli Usa appoggiavano le monarchie autoritarie del Golfo persico, ricco di petrolio, tentando di imporre una “pace fredda” per stabilizzare la regione. Dopo la crisi del 1973 ci si rese conto che bisognava rimediare alle tensioni attraverso un forte intervento diplomatico.

Gli accordi di Camp David del 1979

Colui che produsse questo sforzo fu Jimmy Carter. Eletto presidente nel 1974, Carter comprese che l’unica possibilità concreta per fermare il conflitto era una forte pressione diplomatica, nel vertice di Camp David, dal 5 al 17 settembre 1978, cercò di recuperare il processo di pace iniziato l’anno precedente dal presidente egiziano Sadat. Furono trovati due “accordi quadro” riguardanti la conclusione della pace tra Egitto e Israele, in cambio del ritiro completo dal Sinai e un accordo per giungere ad una pace nell’area mediorientale. Per consentire una piena autonomia agli abitanti di quelle aree, il governo militare israeliano si sarebbe ritirato entro cinque anni dalla Cisgiordania e Striscia di Gaza.

Convinto di aver ottenuto un importante risultato, Carter credeva di aver fermato ulteriori insediamenti almeno nei cinque anni successivi. Invece Begin diede una interpretazione diversa dei trattati sostenendo che avrebbe avuto una validità soltanto nei primi tre mesi.

Il trattato tra Israele ed Egitto fu firmato a Washington il 26 marzo 1979, nelle intenzioni dei negoziatori avrebbe dovuto innescare una serie di accordi successivi che non furono mai siglati, in realtà si ottenne una “pace fredda”, una sorta di patto militare tripartito che durò per oltre due decenni. «Quasi nulla di ciò che concerneva i territori occupati venne realizzato nello spirito dell’accordo – scrive l’ambasciatore Sergio Romano – Ma Sadat ruppe il fronte dei paesi arabi, firmò un trattato di pace con Israele, ottenne la restituzione del Sinai, pronunciò uno storico discorso al Parlamento di Gerusalemme». (S. Romano, Con gli occhi dell’Islam. Mezzo secolo di storia in una prospettiva mediorientale, 2007)

Con questi accordi si evitava il ricorso alla guerra, il trattato di pace tra Israele ed Egitto veniva considerato un elemento di stabilità nell’ambito dell’esplosiva regione mediorientale. I decenni che seguiranno gli accordi di Camp David (1979-1991) e del dopo guerra fredda (1991-2001) furono caratterizzati da una riorganizzazione della dominazione americana nell’area mediorentale. Gli Stati Uniti riuscirono ad accrescere la loro influenza tessendo una serie di accordi con i principali regimi arabi. Si creò un equilibrio basato su un vero e proprio “patto di stabilità” che si estendeva dall’Egitto fino a tutti i paesi protagonisti dei conflitti, che rinunciavano all’uso della forza per modificare l’equilibrio nell’area.

La pace fredda

In considerazione del forte disimpegno degli Stati Uniti che appoggiavano le élite arabe e sostenevano governi autoritari, questo patto evitò di far esplodere qualsiasi evento che potesse far insorgere instabilità, destabilizzazione e disordini popolari. Una stabilizzazione apparente, retta su enormi stanziamenti di fondi e corrisposti da un elevatissimo flusso di armi dagli Stati Uniti, non costruttiva, che non ha premesso un’evoluzione dei rapporti tra Stati, divenuti complicati dopo lo scoppio della prima guerra arabo-israeliana del 1948. Una “pace fredda” che ha bloccato anche i meccanismi di crescita del sistema economico e sociale di alcuni paesi arabi, poiché gli investimenti necessari per consentire alla popolazione un’adeguata crescita non ci sono stati e quasi tutte le risorse finanziarie sono state dirottate nel potenziamento degli armamenti bellici. Tutto ciò ha impedito lo sviluppo delle classi medie nate dall’urbanizzazione e dalla diffusione dell’insegnamento universitario all’interno delle società arabe.
Un’eccessiva militarizzazione che ha portato alla stagnazione, alla regressione dei rapporti sociali, al mancato investimento nei settori cruciali dell’apparato statale come il sociale, la ricerca scientifica e l’educazione. In tal modo i regimi autoritari hanno consolidato il loro potere senza concedere riforme strutturali, impedendo ai paesi arabi della regione di avviare un processo di democratizzazione. A questo si aggiunge che non fu avviata la demilitarizzazione, solitamente la sottoscrizione di accordi prevede poi una fase in cui si avvia una diminuzione degli investimenti nella fornitura di armamenti, per consentire alle parti di avviare un processo di stabilizzazione dei rapporti.
In questo caso accadde il contrario, aumentarono gli investimenti militari e gli acquisti di armi.

Gli accordi di Camp David furono nella realtà una sorta di accordo militare, alcune clausole del trattato di pace tra Israele e l’Egitto prevedevano uno stanziamento da parte degli Stati Uniti a favore dei due paesi, di 5 miliardi di dollari di aiuti economici e militari. Anche se questi ingenti stanziamenti di fondi sembrano ingiustificabili a fronte di un trattato di pace, può essere considerato un tentativo di mediazione e di incentivazione ad abbandonare lo scontro armato come mezzo di risoluzione del conflitto. Tuttavia è incomprensibile, però, come questi finanziamenti siano stati erogati annualmente, infatti dal 1978 l’Egitto ha beneficiato di 1,2 miliardi di dollari di aiuti militari mentre Israele di 1,8 miliardi di dollari.

Gli stati Uniti hanno concesso un finanziamento di 75 milioni di dollari alla Giordania e altri 200 milioni ad Israele dopo la firma dell’accordo di pace tra i due paesi sottoscritto nel 1996.

Secondo Stephen Zunes «L’entità delle forniture di armi concesse dagli Stati Uniti al Medio Oriente risulta in tutta la sua evidenza dall’esame delle cifre: il bilancio 2003 prevede che il 72 % dell’aiuto americano al Medio Oriente abbia carattere militare, sicché soltanto il 28 % è destinato allo sviluppo economico. I 3, 8 miliardi di dollari di aiuti militari riservati al Medio Oriente superano il 90 % dell’aiuto totale destinato dagli Stati Uniti al mondo intero. Da notare che l’ammontare totale degli acquisti di armi da parte dei paesi del Medio supera ampiamente quello di questo aiuto militare; nel 2001 è stato di 6,1 miliardi di dollari, pari a oltre la metà delle spese mondiali per armamenti»(S.Zunes, La scatola esplosiva. La Politica americana in Medio Oriente e le radici del terrorismo, 2003).

Desiderosi di aumentare il flusso di esportazioni di armi verso il Medio Oriente, gli ingenti finanziamenti degli Stati Uniti verso i paesi alleati ha anche comportato un aumento della domanda di acquisto degli armamenti da parte di quasi tutti i principali paesi arabi.
Le enormi spese militari hanno inciso sui loro bilanci e spiegano la tendenza alla stagnazione, alla riduzione degli investimenti in campo agricolo, nel settore sociale e nella ricerca scientifica. Per comprendere le cause di questo ritardo di sviluppo, un rapporto commissionato dalle Nazioni Unite nel 2002, individua alcuni fattori come l’elevato grado di disuguaglianza interna, l’emarginazione delle donne dalla vita pubblica ed un alto livello di corruzione. ( Il rapporto Arab Human Development Report del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite(UNDP) pubblicato nel 2002

Dall’analisi dei fatti e degli studi emerge con evidenza che alla decolonizzazione non è seguita una fase di crescita economica e sociale tale da consentire uno sviluppo della democrazia e l’emergere del pluralismo politico e di una società civile. La gestione della politica mediorientale statunitense ha generato un risentimento diffuso per l’appoggio ai regimi corrotti e repressivi, il sostegno incondizionato ad Israele, i tentativi di destabilizzare governi, anche con interventi diretti dei servizi segreti.

 

 

BIBLIOGRAFIA

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Romano, Sergio, Con gli occhi dell’Islam. Mezzo secolo di storia in una prospettiva mediorientale, Longanesi, Milano 2007

Zunes, Stephen, The Israeli-Jordanian Peace Agreement: Peace or Pax Americana?, Middle East Policy, primavera 1995, vol. III, n°4.

Zunes, Stephen, La scatola esplosiva. La Politica americana in Medio Oriente e le radici del terrorismo, Jaca Book, Milano 2003, p.69

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