“Torna presto!”. Era una frase di cortesia, poteva sembrare una frase fatta. Ma le ultime due o tre volte che sono stato a trovarlo, nel suo appartamento zeppo di libri e odoroso di tabacco da pipa al quinto piano di un alto edificio vicino al canale di Saint-Martin, vicino al ponte girevole.“Torna presto!”: un modo di dire. Eppure… In questi casi, la prima ad arrivare è l’incredulità. Non è possibile. Non può succedere. Quelli come lui sono immortali. Ricordo ancora quel pomeriggio di più di trent’anni fa, quando la mamma mi disse quieta, sicura, a bassa voce: «Non è nulla. Vedrai che torna. Stasera arriva». Mio padre era morto di primo mattino, e lei lo sapeva bene. Provai un gelo, una stretta al cuore. Ebbi paura. Poi, purtroppo, il rimorso. Per tutta la vita ho pensato che, appena mi fosse arrivata la notizia, avrei mollato tutto e sarei corso a Parigi per salutarlo un’ultima volta, per vederlo ancora prima che il buio lo inghiottisse. Invece mi trovo stranamente impigliato in una settimana d’impegni tutti urgenti, tutti indilazionabili: se ne andrà senza di me, e magari nessuno noterà la mia assenza, o forse invece qualcuno se ne accorgerà e scuoterà la testa («Quell’ingrato!»). E io, quell’assenza, non me la perdonerò mai finché vivo. Infine arriva, mesto e clemente, il rimpianto. Quando si spegne una luce il cielo si fa più buio. Tutto resterà come prima, eppure nulla sarà più come quando c’era. Continueremo a scrivere, a celebrare convegni e congressi, a discutere di Medioevo e di altro: ma lui non ci sarà più, e quell’assenza sarà irrimediabile.
Non che non ce l’aspettassimo. Jacques Le Goff, nato il 1° gennaio 1924, era ormai arrivato alla bella età di novant’anni: e sempre attivo, attento, lucidissimo. Lavorava come aveva sempre fatto, con serenità ed entusiasmo. Non poteva camminare quasi più, non usciva di casa; la sera, un suo studente veniva a fargli compagnia, gli preparava la cena, insieme vedevano un film o una partita di calcio. Poi dopo la prima colazione della mattina restava di nuovo solo fino a sera. Solo, nel silenzio del suo studio pieno di libri e di ricordi. Se n’è andato come aveva sempre vissuto, studiando e lavorando.
Continueremo a lungo a sviluppare le idee che ci ha lasciato in eredità, a meditare sui lavori abbandonati a metà strada, a discutere su come perpetuare la sua eredità magistrale. Avrei voluto dargli la gioia di dedicargli un libro che non ho ancora terminato e al quale so ch’egli teneva molto: quel libro è ancora in alto mare, ma se Dio vorrà lo condurrò a buon fine per dedicarlo alla sua memoria.
Non per quel che mi ha insegnato sul Medioevo: ma per quel che mi ha fatto capire su che cosa significhi sentirsi responsabile di un allievo, lasciargli per intero la sua libertà di esprimersi e al tempo stesso mantenere intatta la fiducia che tanto più dimostrerà di aver capito i tuoi insegnamenti quanto più saprà essere se stesso, con coscienza e con umiltà.
Le Goff ci stupì, noialtri allora giovani studiosi italiani – eravamo un bel gruppetto, a Spoleto nel 1968, per l’annuale “rito” dei convegni primaverili del Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo –, con la sua molte smisurata, il suo pantagruelico appetito, il fumo della sua eterna pipa e i grandi occhi vivissimi sempre spalancati. Aveva scritto da poco un libretto sugli intellettuali e la vita universitaria uscito in italiano col titolo Genio del Medioevo (Mondadori 1959), che per molti anni fu una lettura obbligatoria che noi imponevamo agli esami. Resisteva ancora, attardata nelle pieghe della semi-cultura diffusa e nel conformismo scolastico, l’idea di un Medioevo “oscuro”: quello povero, ignorante, barbaro e superstizioso di cui aveva parlato Voltaire. Noialtri, che ad esempio a Firenze avevamo studiato con Sestan allievo di Salvemini e di Volpe e con Garin allievo di Gentile, non condividevamo certo quel genere di pregiudizi: eppure, la franchezza con cui Le Goff ci mise davanti a un Medioevo luminoso, razionale, felice, libero, stupì e quasi scandalizzò perfino noi.
Imparammo più tardi a seguirlo nella sua torrenziale produzione senza lasciarcene più stupire, ma ammirandola sempre di più. Conoscevamo il suo “laicismo” intransigente, che pure non cedeva mai alla volgarità dell’anticlericalismo o dell’intolleranza: tuttavia ci sorpresero la delicatezza e la profondità con le quali riuscì a parlare di Francesco d’Assisi (San Francesco d’Assisi, Laterza 2000) e la dottrina anche teologica con la quale esaminò il tema del rapporto tra santità e regalità nella figura di Luigi IX (San Luigi, Einaudi 1996).
Da quell’innamorato della vita che era, apprezzandola gioiosamente anche nei suoi aspetti fisici, riuscì a fornirci un quadro straordinario del ridere e dell’umorismo medievale come a parlarci con spregiudicato realismo del rapporto tra la gente del Medioevo e il proprio corpo; ma al tempo stesso seppe mostrare nel bellissimo saggio Il cielo sceso in terra. Le radici medievali dell’Europa (Laterza 2004) come la fede cristiana fosse profondamente intrinseca a una società che sapeva parlare di Dio sempre e comunque e dovunque, anche quando trattava di guerra, di usura, di mercatura. Fino al recente studio sulla Legenda aurea di Jacopo da Varazze, Il tempo sacro dell’uomo (Laterza 2012).
Parlando da cattolico, non intendo minimamente “cattolicizzare” Jacques Le Goff: gli farei un cattivo e sleale servizio, dal momento che egli – pur avendo ricevuto un’educazione cattolica, rispettando profondamente il cattolicesimo e amando l’esperienza cristiana – credente non si professava. Tuttavia, è obiettivamente necessario ripercorrere, a meglio comprendere la sua personalità e la sua opera, proprio quel libro che peraltro è uno dei suoi più famosi e più “classici”, e che pure è stato fra i suoi quello che gli ha guadagnato più attacchi dagli ambienti cattolici. Alludo a La nascita del Purgatorio (Einaudi 1982), uno studio che dal titolo può apparire polemico e provocatorio: e che magari lo è. Sia pure: ma proprio lì, studiando la genesi che tra antichità cristiane e Medioevo ha condotto all’elaborazione prima dell’idea dello “stato spirituale” delle anime sospese, quindi a quella degli effettivi loca purgatoria, emerge con forza una tesi convinta, commossa, commovente: quella della tesi della possibilità di un legame fatto d’amore e di solidarietà che collega i viventi ai defunti, l’idea di un sostegno e di un aiuto reciproco, un filo sottile e fortissimo fatto di preghiere e di speranza. Certo: comunione dei santi, la chiamiamo noi.
E il Simbolo di Nicea, il Credo, c’impegna a credervi. Le Goff non si sente legato a questo impegno. Ma, da storico, guarda all’uomo, alle sue debolezze, ai suoi errori e alla sua aspirazione al cielo. Forse, sul piano della fede, non condivide tutto ciò. Ma lo “sente”: e ce lo fa sentire. Anche lo studio, quando è serio e profondo, diventa preghiera.
(Franco Cardini, AVVENIRE, 2 aprile 2014)