Geopolitica

Medio Oriente, dalla “pace fredda” allo sgretolamento dell’ordine regionale (1978-2003).

Nel presente saggio si sostiene la tesi che durante le varie fasi del conflitto arabo-israeliano gli Stati Uniti, divenuti nel frattempo i principali attori della scena mediorientale, hanno favorito una “pace fredda”, durata per oltre due decenni, in virtù dell’importanza strategica ed economica del Medio Oriente. Una stabilizzazione che ha favorito una eccessiva militarizzazione della regione con ingenti stanziamenti di fondi per l’acquisto di armi alle monarchie autocratiche, come l’Egitto che fino alla fine degli anni Settanta rappresentava il grande nemico di Israele e che poi diventato il più stretto alleato arabo nella regione. Vengono analizzati mutamenti in Medio Oriente considerando fondamentale tre avvenimenti: gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, la guerra in Iraq del 2003 e l’esplosione della primavera araba del 2011.

Lo sgretolamento dell’ordine regionale in Medio Oriente

Questa stabilità dell’area, fatta eccezione per alcuni casi, è durata fino a quando due Jet di linea Boeing 767, dirottati da terroristi arabi, si schiantarono contro il World Trade Center di New York l’ 11 settembre 2001 facendo crollare le Torri Gemelle ed uccidendo quasi tremila persone. Quest’attentato fece crollare anche l’assetto politico in Medio Oriente poiché le reazioni degli Usa si focalizzarono proprio in quest’area, ritenuta fondamentale per la sicurezza mondiale.
Il primo decennio del Duemila è caratterizzato da uno sgretolamento dell’ordine regionale mediorientale, che si era costituito alla fine degli anni Settanta, con l’assoluto predominio della superpotenza americana.
E coloro che hanno sostenuto questo status quo, gli Stati Uniti, hanno deciso unilateralmente secondo i criteri stabiliti dall’amministrazione Bush, sotto la spinta di gruppi di pressioni, intellettuali, neoconservatori e Think Tank, di farlo saltare per impiantare una democrazia artificiale, imporla con la forza e provocare una reazione a catena. Nessuno a Washington ha mai considerato la possibilità di predisporre un piano per aiutare gli Stati arabi a raggiungere una modernità ed un processo di democratizzazione autonomo.

I risultati ottenuti non sono stati quelli previsti, e sono sotto gli occhi di tutti, ma le conseguenze prodotte non solo non hanno rispettato le previsioni ma hanno generato delle conflittualità non previste ed alimentato sentimenti antiamerican e, in generale, antioccidentali profondi.

La prima guerra arabo-isrealiana del 1948 ed il fallimento del piano di spartizione dell’Onu

Per analizzare i nuovi equilibri della regione è utile affrontare, in questo saggio, i conflitti che hanno caratterizzato lo scontro tra arabi e israeliani e l’impatto drammatico che tale confronto ha determinato in Medio Oriente e, più in generale, nelle relazioni internazionali. La costituzione dello Stato di Israele nel cuore del Medio Oriente arabo ha rappresentato l’inizio di un conflitto che ha infiammato l’intera regione, tuttora il principale teatro di tensioni internazionali.

La guerra arabo-israeliana del 1948 avviò la questione palestinese, coinvolse gli eserciti di Egitto, Siria, Libano, Iraq e Giordania che combatterono contro Israele. Fu anche una guerra dove gli Stati arabi badarono ai loro interessi dimenticando il futuro Stato Palestinese. «Non esisteva nessuna visione comune che fosse in grado di riunificare gli arabi nella lotta contro Israele, e mancava una strategia, sia militare che politica, per affrontare lo stato ebraico», scrive Fawaz Gerges in L’Egitto e la Guerra del 1948.

Quando l’armistizio pose fine allo scontro armato, il territorio affidato dalle Nazioni Unite alla futura Palestina, era stato smembrato e la maggior parte della popolazione araba si trasformò in una massa di profughi in cerca di terre per essere ospitata. Fallito il piano di spartizione previsto dall’Onu, prevalse la logica militare e di conseguenza nasceva uno Stato ebraico frutto dell’azione di guerra. Israele controllava il 78% del paese, compreso metà dei territori assegnati ai palestinesi dal piano di spartizione delle Nazioni Unite, del futuro Stato, ridotto al 22% dell’intera regione, la West Bank fu annessa dalla Giordania e Gaza dall’Egitto.

Con l’armistizio, Israele annetteva importanti territori a nord, inizialmente affidati ai palestinesi, come Nazareth, Akka, Naharya, che spezzavano l’entità statuale araba e consentivano ad Israele di controllare il confine con il Libano ed impedire la continuità territoriale. Nell’immaginario collettivo ebraico questa conflitto è ricordato come la guerra d’indipendenza, mentre per il popolo palestinese fu una catastrofe (Nakba).

Le due questioni irrisolte: la definizione dello Stato ebraico e il destino dei profughi palestinesi

Da questa prima guerra rimasero due questioni fondamentali, che tuttora sono ancora irrisolte: la definizione dei confini dello Stato ebraico e il destino dei profughi palestinesi. Riconosciuto da diversi paesi ma non dai vicini arabi confinanti con la Palestina, Israele aveva costruito il nuovo Stato con la legittimazione della guerra, i confini del 1949 avevano sostanzialmente migliorato la loro posizione strategica, soprattutto con il controllo del Negev, ma rimaneva forte il timore che un attacco simultaneo e coordinato da parte di Giordania, Siria ed Egitto lungo le frontiere avrebbe avuto successo.

In considerazione della mancata armonia dei paesi arabi limitrofi, l’obiettivo principale di Israele fu di raggiungere una profondità strategica adeguata per combattere i nemici fuori dal territorio ebraico. Fino al 1967, “guerra dei Sei giorni”, la strategia israeliana si basava sull’attacco preventivo, colpire i nemici prima che potessero iniziare le ostilità.

La seconda questione riguardava la condizione dei profughi palestinesi, essi persero la speranza di ottenere il proprio Stato in Palestina e furono costretti ad abbandonare le loro terre, in migliaia furono evacuati e si ammassarono in campi profughi ai confini di Israele e all’interno dei confini degli altri paesi arabi. Le stime divergono in base alle fonti ma fu «un trasferimento di popolazione di enormi proporzioni che doveva acuire il senso di alienazione e il risentimento dei palestinesi». . (Secondo le stime dei palestinesi i profughi furono circa un milione mentre secondo le cifre fornite dagli israeliani circa 500 mila. SecondoThomas Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino 2004, le stime dell’Onu di circa 750.000 sembra più attendibile. )

La crisi dei profughi e la sua mancata risoluzione, tuttora rimane uno dei problemi principali della disputa arabo-israeliana.

La guerra di Suez del 1956: la fine dell’influenza anglo-francese e l’intervento direttto degli Usa in Medio Oriente

La guerra di Suez del 1956 fu il secondo conflitto che modificò gli equilibri internazionali, segnando il declino della potenza coloniale britannica. Quando Nasser nazionalizzò il canale di Suez, sotto il controllo di un consorzio francese e inglese, le potenze coloniali furono private dei profitti che ricavavano mentre Israele perdeva lo sbocco marittimo al Mar Rosso. Si formò un’alleanza di convenienza tra Francia, Inghilterra e Israele che, con un accordo segreto, decisero di conquistare il 29 ottobre 1956, il canale di Suez con un’azione militare.

Si scatenò un conflitto diplomatico, ma gli Stati Uniti, pressati dall’Urss, costrinsero Francia e Inghilterra a ritirarsi dal canale.
Questo avvenimento avrebbe potuto segnare la fine del colonialismo se gli Stati Uniti, spinti da interessi strategici ed economici, non si fossero sostituiti alle potenze coloniali europee, diventando la superpotenza dominante nell’area.
Per impedire l’espansione sovietica, soprattutto dopo la fine della dominazione anglo-francese, Washington intensificò la sua politica mediorientale. La “dottrina Eisenhower”, annunciata nel gennaio del 1957, dopo la rielezione alla presidenza, prevedeva l’intervento armato degli Stati Uniti per sostenere i paesi del Medio Oriente che avessero richiesto assistenza contro il comunismo. La crisi di Suez aveva segnato la fine dell’influenza di Inghilterra e Francia nella regione ed Eisenhower dichiarò che «gli Stati Uniti non potevano lasciare un vuoto in Medio Oriente e presumere che la Russia ne restasse fuori» (D. Little, Orientalismo americano. Stati Uniti e Medio Oriente dal 1945, Liberilibri 2007)

La guerra dei Sei giorni del 1967, Isreale ottiene la profondità strategica preventiva

Per quasi tutto il periodo della guerra fredda, la politica mediorientale degli Stati Uniti ruotava intorno ad alcuni punti: garantire all’Occidente l’accesso al petrolio, mantenere la pace e l’equilibrio per evitare di estendere il conflitto, salvaguardare l’indipendenza con Israele e proteggere le rotte marittime e le vie di comunicazione.
Quando furono siglati i trattati di pace dopo la guerra di Suez, le tensioni nella regione si aggravarono ulteriormente e aumentarono gli scontri tra Israele e i Paesi arabi confinanti. Ma il mondo arabo era in fermento e si intensificavano le varie componenti della resistenza palestinese, nel 1964 nasceva l’Olp, Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Quando nel giugno del 1967 Israele attaccò e sconfisse in solo sei giorni le forze egiziane, siriane e giordane, ottenendo la necessaria profondità strategica preventivata, il conflitto raggiunse il massimo livello di guardia. La questione palestinese divenne più complessa con l’occupazione israeliana dei nuovi territori. La sconfitta araba trasformò il panorama politico mediorientale: Israele controllava la Cisgiordania, il Sinai, la Striscia di Gaza e il Golan, uno spazio ampio per tenere gli avversari fuori dai confini, ma questi territori erano abitati da oltre un milione di palestinesi. Tutte le parti coinvolte nella “guerra dei Sei giorni” sostenevano la propria linea. «Questa guerra è vista dagli israeliani e dalla maggior parte delle fonti occidentali come una guerra di difesa preventiva. Tuttavia nelle società arabe e musulmane del Medio Oriente era vista come la riprova dell’aggressività di Israele nella regione» scrivono Kylie BAXTER e Shahram AKBARZADEH in Le radici dell’antimericanismo. (Odoya 2009)

Il problema dei profughi divenne più drammatico poiché i palestinesi persero Kylie, anche gli ultimi territori in cui vivevano ed emigrarono in massa in Giordania. Fu stimato in oltre 400.000 mila il numero di profughi in fuga.
La sconfitta provocò nel mondo arabo sconcerto per l’offuscamento del nazionalismo arabo, ma il dramma dell’occupazione fu vissuto direttamente dai palestinesi che furono costretti a subire l’occupazione militare israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, dove si erano trasferiti in massa. Dopo questo esodo gli arabi palestinesi potevano essere identificati in base a tre tipologie: la minoranza non ebrea rimasta all’interno dello Stato di Israele, gli arabi dei Territori occupati, e coloro che erano emigrati fuori dalla Palestina.

Secondo la nuova risoluzione dell’Onu “Pace in cambio di Terra”, «il ritiro delle forze armate israeliane dai Territori occupati nel recente conflitto» in cambio del riconoscimento da parte dei paesi confinanti e la garanzia di confini sicuri. Ma i testi della risoluzione non erano chiari e vi furono diverse interpretazioni, gli Stati arabi sostenevano che s’intendeva il ritiro definitivo delle forze militari israeliane dai Territori occupati, mentre Israele interpreta la decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu come un ritiro associato alla rivendicazione del diritto di sicurezza di uno Stato. Ognuno rimase sulle proprie posizioni e la risoluzione, ancora oggi parte integrante dei negoziati di pace, rimase inefficacie.

Con la guerra del Kippur del 1973 Israele consolida i confini del 1967

L’agenda politica del Medio Oriente alla fine degli anni Sessanta risentiva notevolmente della guerra fredda ed il conflitto tra arabi e israeliani fu condizionato dai due blocchi contrapposti, si intensificò notevolmente l’alleanza tra Stati Uniti e Israele mentre l’Egitto entrava nell’orbita sovietica.
Determinati a cancellare le conquiste territoriali del 1967, i leader dei paesi arabi pianificarono un attacco militare e il 6 ottobre del 1973, giorno ebraico dell’espiazione (Yom Kippur), Egitto e Siria attaccarono improvvisamente Israele. Dopo un inizio che sembrava favorevole alle forze militari arabe, Israele riuscì nuovamente a vincere il conflitto e a consolidare le conquiste della guerra del 1967.

Con l’intento di imporre il ritiro dai territori occupati, dopo la guerra del Kippur, l’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, impose l’embargo ad Israele ed ai paesi occidentali. Questa decisione creò un improvviso aumento del prezzo del petrolio con una conseguente forte crisi energetica.

Gli accordi di Camp David del 1978 per creare una stabilità in Medio Oriente

Gli Stati Uniti compreso ancora di più l’importanza strategica della regione, essenziale per l’approvvigionamento delle risorse energetiche e fu proprio in questa circostanza che rafforzarono il loro legame con Israele. Per sostenere un’alternativa energetica, gli Usa appoggiavano le monarchie autoritarie del Golfo persico, ricco di petrolio, tentando di imporre una “pace fredda” per stabilizzare la regione. Dopo la crisi del 1973 ci si rese conto che bisognava rimediare alle tensioni attraverso un forte intervento diplomatico.

Colui che produsse questo sforzo fu Jimmy Carter. Eletto presidente nel 1974, Carter comprese che l’unica possibilità concreta per fermare il conflitto era una forte pressione diplomatica, nel vertice di Camp David, dal 5 al 17 settembre 1978, cercò di recuperare il processo di pace iniziato l’anno precedente dal presidente egiziano Sadat. Furono trovati due “accordi quadro” riguardanti la conclusione della pace tra Egitto e Israele, in cambio del ritiro completo dal Sinai e un accordo per giungere ad una pace nell’area mediorientale.

Per consentire una piena autonomia agli abitanti di quelle aree, il governo militare israeliano si sarebbe ritirato entro cinque anni dalla Cisgiordania e Striscia di Gaza. Convinto di aver ottenuto un importante risultato, Carter credeva di aver fermato ulteriori insediamenti almeno nei cinque anni successivi. Invece Begin diede una interpretazione diversa dei trattati sostenendo che avrebbe avuto una validità soltanto nei primi tre mesi.

Il trattato tra Israele ed Egitto fu firmato a Washington il 26 marzo 1979, nelle intenzioni dei negoziatori avrebbe dovuto innescare una serie di accordi successivi che non furono mai siglati, in realtà si ottenne una “pace fredda”, una sorta di patto militare tripartito che durò per oltre due decenni. «Quasi nulla di ciò che concerneva i territori occupati venne realizzato nello spirito dell’accordo – scrive Sergio Romano nel suo libro Con gli occhi dell’Islam,( Longanesi 2007) – Ma Sadat ruppe il fronte dei paesi arabi, firmò un trattato di pace con Israele, ottenne la restituzione del Sinai, pronunciò uno storico discorso al Parlamento di Gerusalemme».

Con questi accordi si evitava il ricorso alla guerra, il trattato di pace tra Israele ed Egitto veniva considerato un elemento di stabilità nell’ambito dell’esplosiva regione mediorientale. I decenni che seguiranno gli accordi di Camp David (1979-1991) e del dopo guerra fredda (1991-2001) furono caratterizzati da una riorganizzazione della dominazione americana nell’area mediorentale. Gli Stati Uniti riuscirono ad accrescere la loro influenza tessendo una serie di accordi con i principali regimi arabi. Si creò un equilibrio basato su un vero e proprio “patto di stabilità” che si estendeva dall’Egitto fino a tutti i paesi protagonisti dei conflitti, che rinunciavano all’uso della forza per modificare l’equilibrio nell’area.

La Pace Fredda, stabilità e militarizzazione del Medio Oriente

In considerazione del forte disimpegno degli Stati Uniti che appoggiavano le élite arabe e sostenevano governi autoritari, questo patto evitò di far esplodere qualsiasi evento che potesse far insorgere instabilità, destabilizzazione e disordini popolari. Una stabilizzazione apparente, retta su enormi stanziamenti di fondi e corrisposti da un elevatissimo flusso di armi dagli Stati Uniti, non costruttiva, che non ha premesso un’evoluzione dei rapporti tra Stati, divenuti complicati dopo lo scoppio della prima guerra arabo-israeliana del 1948.

Una “pace fredda” che ha bloccato anche i meccanismi di crescita del sistema economico e sociale di alcuni paesi arabi, poiché gli investimenti necessari per consentire alla popolazione un’adeguata crescita non ci sono stati e quasi tutte le risorse finanziarie sono state dirottate nel potenziamento degli armamenti bellici. Tutto ciò ha impedito lo sviluppo delle classi medie nate dall’urbanizzazione e dalla diffusione dell’insegnamento universitario all’interno delle società arabe. Un’eccessiva militarizzazione che ha portato alla stagnazione, alla regressione dei rapporti sociali, al mancato investimento nei settori cruciali dell’apparato statale come il sociale, la ricerca scientifica e l’educazione. In tal modo i regimi autoritari hanno consolidato il loro potere senza concedere riforme strutturali, impedendo ai paesi arabi della regione di avviare un processo di democratizzazione. A questo si aggiunge che non fu avviata la demilitarizzazione, solitamente la sottoscrizione di accordi prevede poi una fase in cui si avvia una diminuzione degli investimenti nella fornitura di armamenti, per consentire alle parti di avviare un processo di stabilizzazione dei rapporti.

In questo caso accadde il contrario, aumentarono gli investimenti militari e gli acquisti di armi. Gli accordi di Camp David furono nella realtà una sorta di accordo militare, alcune clausole del trattato di pace tra Israele e l’Egitto prevedevano uno stanziamento da parte degli Stati Uniti a favore dei due paesi, di 5 miliardi di dollari di aiuti economici e militari. Anche se questi ingenti stanziamenti di fondi sembrano ingiustificabili a fronte di un trattato di pace, può essere considerato un tentativo di mediazione e di incentivazione ad abbandonare lo scontro armato come mezzo di risoluzione del conflitto.

Tuttavia è incomprensibile, però, come questi finanziamenti siano stati erogati annualmente, infatti dal 1978 l’Egitto ha beneficiato di 1,2 miliardi di dollari di aiuti militari mentre Israele di 1,8 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti hanno concesso un finanziamento di 75 milioni di dollari alla Giordania e altri 200 milioni ad Israele dopo la firma dell’accordo di pace tra i due paesi sottoscritto nel 1996.

Secondo Stephen Zunes «L’entità delle forniture di armi concesse dagli Stati Uniti al Medio Oriente risulta in tutta la sua evidenza dall’esame delle cifre: il bilancio 2003 prevede che il 72 % dell’aiuto americano al Medio Oriente abbia carattere militare, sicché soltanto il 28 % è destinato allo sviluppo economico. I 3, 8 miliardi di dollari di aiuti militari riservati al Medio Oriente superano il 90 % dell’aiuto totale destinato dagli Stati Uniti al mondo intero. Da notare che l’ammontare totale degli acquisti di armi da parte dei paesi del Medio supera ampiamente quello di questo aiuto militare; nel 2001 è stato di 6,1 miliardi di dollari, pari a oltre la metà delle spese mondiali per armamenti» (S. Zunes, La scatola esplosiva. La Politica americana in Medio Oriente e le radici del terrorismo, Jaca Book 2003)

Desiderosi di aumentare il flusso di esportazioni di armi verso il Medio Oriente, gli ingenti finanziamenti degli Stati Uniti verso i paesi alleati ha anche comportato un aumento della domanda di acquisto degli armamenti da parte di quasi tutti i principali paesi arabi.
Le enormi spese militari hanno inciso sui loro bilanci e spiegano la tendenza alla stagnazione, alla riduzione degli investimenti in campo agricolo, nel settore sociale e nella ricerca scientifica.

Per comprendere le cause di questo ritardo di sviluppo, un rapporto commissionato dalle Nazioni Unite nel 2002, individua alcuni fattori come l’elevato grado di disuguaglianza interna, l’emarginazione delle donne dalla vita pubblica ed un alto livello di corruzione. E’ evidente che alla decolonizzazione non è seguita una fase di crescita economica e sociale tale da consentire uno sviluppo della democrazia.
La gestione della politica mediorientale statunitense ha generato un risentimento diffuso per l’appoggio ai regimi corrotti e repressivi, il sostegno incondizionato ad Israele, i tentativi di destabilizzare governi, anche con interventi diretti dei servizi segreti.

Come ha scritto Edward Said in La Questione Palestinese (Il Saggatore 2011) «la politica mediorientale degli Usa non avrebbe del resto potuto tradursi in altro se non in un netto rifiuto a sostenere quegli stessi processi che invece vengono tanto celebrati nella storia americana: la lotta per l’indipendenza, la difesa dei diritti umani e liberazione della tirannia».

Questo era il quadro all’alba del XXI secolo, con uno status quo che rimase inalterato, prima degli attentati che sconvolsero il nuovo ordine mondiale.

Nel 2001 gli Stati Uniti fanno saltare il patto di stabilità che durava da venti anni

La prima reazione agli atti terroristici dell’11 settembre 2001 fu la fine del tacito patto di stabilità che durava da oltre vent’anni, l’annuncio dell’Amministrazione Bush di un politica non più di contenimento ma di “attacco precauzionale”.
A Washington fu coniata la nuova definizione del “Grande Medio Oriente” per definire un’area che includeva i paesi del mondo arabo, con Pakistan, Afghanistan, Iran, Turchia e Israele.

La nuova strategia americana per il controllo della regione, prevedeva l’esportazione della democrazia. Secondo gli ideatori di questo nuovo piano, il “Grande Medio Oriente” avrebbe garantito pace, stabilità e sicurezza attraverso le logiche economiche della democrazia, del mercato e dell’economia liberale. Il progetto non prevedeva di favorire dei meccanismi di crescita e di sviluppo nell’area, ma di agire con la forza per modificare gli equilibri. Bisognava intervenire militarmente contro quello che veniva percepito l’origine dei problemi nel mondo, riformando il sistema politico interno.

Il sistema regionale mediorientale produceva delle situazioni ritenute insopportabili da Washington come la formazione di organizzazioni terroristiche, un forte risentimento antiamericano, persistenza dei regimi autoritari, la mancata soluzione del conflitto palestinese, l’instabilità della regione petrolifera del Golfo. Occorreva modificare e trasformare l’area per impedire che queste problematiche, ritenute dannose agli interessi americani, potessero influire negativamente sulla gestione della politica mediorientale.

Non fu fatta un’analisi storica per comprendere le ragioni di un sentimento di protesta contro l’Occidente e gli Stati Uniti, non fu fatta distinzione tra movimenti di resistenza nazionale, come in Palestina, ed i gruppi terroristici tutti furono assimilati ad al-Qaeda, la missione da compiere era sconfiggere “l’asse del male”. Fu dedotto che la società islamica produceva quest’odio, che è il frutto di una cultura arretrata dove i germi della democrazia non potranno mai attecchire, ritenendola una patologia da estirpare con la forza militare. L’imperialismo dei neoconservatori prevedeva la sconfitta della civiltà arabo-islamica al fine di sottometterla all’Occidente, senza considerare la possibilità di un’evoluzione dell’islam verso la modernità che potesse condurre la popolazione araba verso un processo di democratizzazione naturale e non imposto con la forza militare.

La guerra in Iraq era stata programmata ed effettuata e l’Iraq avrebbe rappresentato un modello da esportare in tutta la regione. In realtà il piano americano, invece di ottenere i risultati sperati, ha fatto emergere nella sua complessità tutte le conseguenze negative di una politica mediorientale fallimentare. Il progetto di democratizzazione del Medio Oriente attraverso la guerra in Iraq e la campagna in Afganistan ha definitivamente fatto saltare gli equilibri, condotto il Medio Oriente sull’orlo del disordine totale, facendo emergere dalle ceneri del vecchio ordine regionale alcune questioni irrisolte: l’emancipazione degli sciiti, l’ascesa dell’Iran, lo scontro etnico in Iraq, la vittoria di Hamas nella Striscia di Gaza, la guerra in Libia, ma tanti altri focolai di crisi.
Coloro che pretendevano di rimodellare il Medio Oriente hanno modificato le dinamiche della regione.

Nel periodo della “pace fredda” lo spazio del conflitto si era ristretto da arabo-israeliano in israelo-palestinese, dal 2001 questo spazio del conflitto si è allargato in modo considerevole all’Iraq, Libia, Afghanistan fino al Golfo Persico.

BIBLIOGRAFIA

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CAMPANINI, Massimo, Storia del Medio Oriente, Il Mulino, Bologna 2010
GELVIN, James L, Il conflitto israelo-palestinese. Cent’anni di guerra, Einaudi, Torino 2007.
MANSFIELD, Peter, Storia del Medio Oriente, Società Editrice Internazionale, Torino 2003.
MORRIS, Benny, 1948, Rizzoli, Milano 2004

ROGAN, E. L., SHAIM, A, (a cura di), La guerra per la Palestina: riscrivere la storia del 1948, Il Ponte, Bologna 2004.
ROMANO, Sergio, Con gli occhi dell’Islam. Mezzo secolo di storia in una prospettiva mediorientale, Longanesi, Milano 2007.
SAID, Edward W, La pace possibile, Il Saggiatore, Milano 2005.
ZUNES, Stephen, La Scatola Esplosiva. La politica americana in Medio Oriente e le radici del terrorismo, Jaca Book, Milano 2003.

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