Non manca di far discutere il sostanziale passo indietro chiesto dal “New York Times” ai propri giornalisti sui social media. Secondo le nuove linee guida, pubblicate qualche giorno fa, chi lavora per “il Times” dovrà limitare l’espressione delle proprie opinioni politiche. Aprendo così a molti potenziali contenziosi e casi di coscienza: quando un’opinione non è anche “politica” in senso ampio? La strada scelta, insomma, è quella del ritrarsi di qualche posizione dall’infuocata nonché fortemente polarizzata discussione social globale. I motivi sono certamente politici, ovvero, il cercare di non dare adito alle accuse di partigianeria che continuano ad arrivare ai media dall’amministrazione Trump; il quale, peraltro, si esprime davvero senza freni su Twitter su ogni questione. Secondo gli esperti di media potrebbe esserci anche un altro motivo, più tecnico: scoraggiare l’uso delle piattaforme social per rinsaldare le piattaforme proprietarie del NYT nella prospettiva di un cambiamento del modello di business, che diventerà meno condizionato dal traffico Facebook e Twitter e che poggerà più saldamente su variegate forme di abbonamento. Ma come sta risuonando tutta la questione in Italia, dunque in un ambiente media molto diverso da quello degli Stati Uniti? “Non basta – sostiene il direttore del Tg di La 7 Enrico Mentana – il classico disclaimer per cui le opinioni sono personali, ci vuole sicuramente una politica di un comune spazio di chi fa parte di un corpo redazionale. Certo in Usa c’è un sistema bipartitico, da noi la situazione politica è molto più frammentata così come nella pluralità dell’informazione ci sono testate che fanno della faziosità la loro ragion d’essere. Io – contunua Mentana – mi sento di essere liberale ma non indifferente, è difficile trovare un equilibrio tra quelli che sono due diritti, il diritto del giornalista ad esprimere una sua opinione e il diritto della testata ad avere una tutela reputazionale, e due doveri, quello della testata a concedere libertà di opinione e il dovere del giornalista a non rilasciare affermazioni che possano modificare la credibilità della testata. Prima o poi – conclude – questo discorso andrà affrontato, anche se per certi aspetti è già troppo tardi, visto che ci sono delle firme che hanno molti più seguaci sui social che sui giornali. L’unica certezza è che le testate avranno diritto di chiederlo solo se concordato con i rappresentanti dei giornalisti”. Dal canto suo, direttore dell’Huffington Post e conduttrice di “1/2h in più” Lucia Annunziata, spiega che “non è giusto, perché i social sono per eccellenza il medium delle voci individuali. E’ dunque irrealistico pensare di limitare queste voci. Esiste però un problema di responsabilità : un giornalista che va in contraddizione sui social con quello che scrive per il giornale o con quello che scrive il giornale apre un caso di dissenso editoriale prima ancora che di libertà individuale. Non va proibito il dissenso ma chi lo esprime se ne deve assumere la responsabilità in quanto tale”. Ad Annunziata fa eco Claudio Cerasa, direttore del “Foglio”: “Penso che sia una sciocchezza. I giornalisti sui social devono essere liberi di fare quello che vogliono e di dire quello che credono e il codice di sobrietà di un giornalista non lo impone un direttore o chi guida un’azienda ma lo impone il buon senso. Se qualcuno sbaglia, se scrive cose fuori luogo, se ne discute, ma sono contrario a questa forma di paternalismo, che rischia di essere un modo come un altro di uccidere la libertà di espressione. L’associazione tra giornalista e la sua testata c’è, ed è evidente, ma i social sono anche un luogo in cui si discute e ci si confronta e l’adozione di schemi rigidi per regolare il confronto alla lunga tende a ridurre lo spazio di discussione. E quindi, no: non proporrei mai un codice deontologico del buon giornalista samaritano. Viviamo – conclude Cerasa – in un’epoca storica in cui la dittatura della condivisione sta uccidendo la nostra libertà di espressione e ogni freno al confronto è un freno alla creatività di un giornale”